Dove sono gli yacht dei clienti?

Pubblicato il 28 maggio 2008 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Uno dei piccoli gioielli della letteratura finanziaria, purtroppo mai tradotto in italiano, è un libro pubblicato per la prima volta nel 1940 (nel '55 ci fu una seconda edizione) e da allora continuamente ristampato tanto che la casa editrice Wiley lo ha inserito da tempo nei suoi "Investment Classics". Si intitola "Where are the Customers Yachts?" e fu scritto da Fred Schwed Jr., un ex trader che abbandonò le scene di Wall Street poco dopo la crisi del '29. Con il suo volumetto anticipò tutti i libri che nei successivi 70 anni sarebbero stati scritti sui consulenti finanziari, sui broker, sulle manie di grandezza dei trader, sull'ingenuità degli investitori e l'avidità dei banchieri; e c'è pure uno dei primissimi e malvagi affondi contro quella grande barzelletta finanziaria che è l'analisi tecnica (quella teoria che crede di svelare il futuro semplicemente osservando un grafico di borsa e che ha seguaci e santoni quasi fosse Scientology). Il titolo stesso è frutto di una battuta che girava in quegli anni. Ad un signore in visita NY, a passeggio in uno dei moli più esclusivi, fu detto "Quelli sono gli yacht dei banchieri e dei broker", e lui ingenuamente rispose "E dove sono gli yacht dei clienti?".
Ho voluto ricordare questo libro perché ancora una volta narra un'esperienza del passato la cui conoscenza è utilissima ancora oggi, specialmente se parliamo di consulenza finanziaria. A quel tempo i consulenti finanziari indipendenti erano i broker, che lucravano sulle commissioni e che avevano a che fare con i semplici cittadini. Ed allora come oggi, almeno in Italia, erano pervasi da una specie di eccesso di fiducia nel proprio acume e da quella esasperata voglia di auto-convincersi delle proprie capacità divinatorie tali da giustificare le loro parcelle.
Il consulente, scrive Schwed, "non è un bugiardo né un nostro amico. Lo posso spiegare perché non sono andato a pranzo solo con economisti, ma qualche volta anche con psichiatri. Sembra che abbia l'incresciosa tendenza a credere sia vero quello che in realtà è solo una sua speranza. In questo caso allora, l'assunto che il futuro finanziario è imprevedibile è semplicemente troppo spiacevole perché abbia spazio nella coscienza del popolo di Wall Street (...) E' chiedere troppo ai quei romantici e sognatori dei wall streeter, che non avrebbero altrimenti mai scelto questa attività. Loro continuano a sognare di conquiste, di trofei, di potere, per loro e per le persone cui danno consigli".
C'è da dire che da allora (quante volte ho scritto in questi anni che le cose non cambiano mai?) i clienti hanno mantenuto, continua Schwed, "una sfortunata abitudine: fare domande sul futuro. Ora, se voi fate a qualcuno l'onore di chiedergli qualcosa di difficile potete star sicuri che otterrete una risposta dettagliata. Raramente sarà invece la più difficile delle risposte: non lo so".
In una vecchia storiella d'altri tempi un medico replicando a un amico che gli faceva notare l'incompetenza di un altro dottore, rispondeva "non ti preoccupare, non sa abbastanza di medicina per poter far del male a un paziente".
Non so se la stessa cosa la si possa dire oggi di un consulente finanziario che tale si improvviserà.
La settimana scorsa ho criticato un po' la professione nascente dei consulenti finanziari che si dicono indipendenti e che vendono prodotti a basso costo solo per farsi pagare a loro la parcella, semplicemente quindi trasferendo un costo da un soggetto ad un altro.
Una delle attività preferite dei nuovi consulenti, e di buona parte della stampa, è quella di sparare a zero sul mondo del risparmio gestito italiano. Accuse tutte verissime, se non fosse che il risparmio gestito non è solo italiano, e che se è un gran bene fuggire dai prodotti delle avide banche nostrane, non si deve buttare il bambino con l'acqua sporca. Ed il bambino è infatti un gran bel bambino se visto con gli occhi giusti.
Gli americani in finanza sono secoli avanti a noi e già negli anni '20 esistevano una specie di fondi comuni chiamati "investment trust". Lo stesso Schwed nella prima edizione del suo libro li prese di mira criticandoli aspramente, in modo appropriato e lungimirante; ma fu lui stesso a scrivere nell'introduzione all'edizione del 1955, che se qualcosa avrebbe cambiato del suo testo precedente, era solo l'invettiva su quei sistemi di investimento, che nel '55 avevano cambiato nome in "mutual fund" (fondi comuni) e che avevano rappresentato in effetti la cosa più saggia che un investitore avesse potuto fare nei tanti anni che erano trascorsi.
E per quanto inefficienti possano essere, anche quelli delle banche italiane hanno rappresentato una scelta di gran lunga migliore per tantissimi piccoli risparmiatori. Pensiamo alle centinaia di migliaia di italiani rimasti vittima di un default. La gran parte di coloro che acquistarono titoli dell'Argentina iniziarono a comperare 10 anni fa. Se invece che un singolo titolo avessero investito in un paniere di titoli dei paesi emergenti tramite un "inefficientissimo" (da che punto di vista?) fondo comune italiano, oggi dopo 10 anni invece che una perdita astronomica (totale per chi non ha aderito allo scambio) avrebbero avuto in cassa più del 6% all'anno. E credetemi, fa la differenza nella vita di una persona, se hai tempo e pazienza per aspettare.








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